E’ uno splendido periodo di sole, fa ancora caldo abbastanza da uscire in maniche corte, il cielo è limpido e chiaro, non c’è vento. I monti attorno stanno cambiando colore ogni giorno, ora le cime sono diventate di un marrone caldo e cupo perché i faggi hanno perso le foglie, mentre più giù ancora si vedono ciliegi rossi e larici dorati. Sappiamo tutti che arriverà presto l’inverno e desideriamo imprimerci nella memoria quest’ultimo sole: negli occhi i colori, sulla pelle il calore.
Alla fattoria ci stiamo preparando per la neve: facciamo legna, smontiamo recinti e ne montiamo degli altri, isoliamo tubi e tombini con la lana delle nostre pecore, ritiriamo al coperto ciò che si potrebbe rovinare.
L’altra mattina, Raia ed io, stavamo andando nell’orto a raccogliere qualche broccolo, quando abbiamo notato che una pecora aveva uno spesso filo di muco chiaro che le pendeva da sotto la coda e prima che facessimo in tempo a pensare altro, la pecora si era lasciata cadere pesantemente per terra ed aveva iniziato a spingere.
“Mamma! Ma sta partorendo!” Mi ha detto Raia saltellando di gioia.
“Eh già!”
Di solito le nostre pecore partoriscono di notte, nell’ovile, ma a volte capita che lo facciano in giro.
Con calma, mentre le altre pecore pascolavano placide, ci siamo sedute sull’erba tiepida, ancora verde e carnosa, aspettando che nascesse l’agnello. La pecora però non sembrava a suo agio: si sdraiava, spingeva, si rialzava, girava u po’ intorno, belava, si risdraiava e spingeva di nuovo. Mentre era sdraiata e spingeva si vedevano chiaramente gli zoccolini dell’agnello che stavano uscendo ma ogni volta che si rialzava spariva tutto di nuovo dentro. Dopo quasi mezz’ora passata così era ormai evidente che ci fosse qualcosa che non andava e così ho deciso di portarle in stalla per darle una mano.
La pecora in questione, di nome Melita, rimaneva ovviamente indietro e faceva fatica, ma è arrivata ugualmente sana e salva nell’ovile. Una volta al chiuso mi sono avvicinata, ho afferrato gli zoccoli dell’agnello che spuntavano appena ed ho iniziato a tirare, pian piano, aspettando le sue contrazioni. Raia mi guardava dalla porta.
Dopo qualche minuto però mi sono accorta che la situazione non procedeva affatto: l’agnello era molto grosso e fisicamente non ci passava, dovevo allargare la pelle della pecora con le dita per permettere al piccolo di uscire ma mi mancavano a quel punto le mani per tirarlo. Così ho chiesto a Raia di aiutarmi.
Spesso mi chiedo se sia giusto coinvolgerla così tanto nelle nostre faccende, se sia giusto metterle in mano una vita. E quasi sempre mi rispondo che sì, è giusto, o quantomeno non è sbagliato. Perché questa è la nostra vita e lei è in grado di partecipare attivamente, oltre a desiderarlo.
Raia, che già un’altra volta mi aveva aiutato in un parto, ha afferrato gli zoccoli dell’agnello e ha messo in atto quello che le avevo insegnato l’ultima volta che era successo: tirare solo quando la pecora spinge, tirare leggermente verso il basso, ogni tanto cambiare direzione.
Anche se l’ho fatto tante volte, anche se abbiamo visto tanti animali nascere, c’è sempre un attimo di ansia quando si vede il nasino che spunta in mezzo agli zoccoli, quel momento è critico, la testa deve uscire velocemente ma fa fatica, quel naso deve iniziare a respirare quando si rompe il cordone ombelicale, non deve passare troppo tempo da quando esce il naso a quando esce il resto del corpo. E se sei tu che stai tirando fuori l’agnello, ti viene un groppo in gola e alla fine ti ritrovi ad urlare alla pecora come se fosse una tua amica: “Dai Melita spingi, dai che ce la fai, manca poco!!!”
E così dopo il muso è uscita la testa e poi le spalle sono state un gioco da ragazzi e via tutto il resto. L’agnello è caduto a terra, il cordone si è rotto spargendo il suo sangue di vita sulla paglia dorata e quel nasino rosa ha respirato per la sua prima volta, fremendo e starnutendo liquido amniotico.
Raia è rimasta ferma, imbambolata a guardarlo, con un sorriso ebete sul viso pallido.
“Andiamo” le ho detto a bassa voce “lasciamolo con la sua mamma”.